Pina Bausch, il corpo martoriato della "suora" che danzava

Pina Bausch: tra l'amore perduto e la ricerca incessante della perfezione, ritratto di colei che ha rivoluzionato la danza, slegandola dai rigidi schemi classici in favore dell'emozione e del sentimento.

“Dance, dance, otherwise we are lost”.

Ovvero “balla, balla, altrimenti siamo perduti“. Nella frase che introduceva il discorso alla consegna della laurea honoris causa ricevuta all’Università di  Bologna nel 1999 c’era tutta Pina Bausch, la sua dedizione totale all’arte, la concezione di danza come vita, come ancora di salvezza cui aggrapparsi per superare tutti i mali e a cui dedicarsi completamente, in maniera quasi viscerale, alla stregua di una geisha assorbita completamente dal suo uomo, al punto da farne una ragione di vita.

Pina Bausch provava amore per l’arte, e per la danza in particolare, quel tipo di sentimento pulito e sconfinato cui molti ambiscono, ma che pochi riescono a provare davvero, fino in fondo.

Il suo Tanztheater Wuppertal, fondato nel 1972, ha dato vita e forma a un nuovo tipo di interpretazione della danza,rivoluzionando in maniera sorprendente i rigidi crismi imposti dal balletto fino a quel momento; le coreografie stravolgono la loro natura improntata al classicismo e alla perfezione estetica, per diventare movimento che deve comunicare, prima ancora che badare alla tecnica.

Si instaurano, nei passi ideati da Pina Bausch, nuovi rapporti tra fragilità e forza, alla base di tutte le forme d’arte – come lei sostiene – in cui l’interpretazione personale è più importante della linearità e della pulizia dei movimenti;  i danzatori sono chiamati alla creazione delle pièces (che Bausch denomina stück) attraverso l’improvvisazione, generata dalle domande che la coreografa pone loro. Per questo motivo gli interpreti della compagnia di Bausch vengono spesso denominati con il neologismo di danzattori, proprio perché l’espressività facciale, gestuale, il linguaggio del corpo durante l’esibizione sono importanti come un  pas de bourrée ben eseguito, anzi di più.

Tanto che, nelle performance teatrali di Pina Bausch, non è raro sentire urla, gesti sonori, parole, canti, o vedere l’interazione dei personaggi sul palco con i materiali scenici di derivazione strettamente teatrale – come accade in Cafè Muller, del 1978, che rappresenta la vera svolta decisiva nello stile e nei contenuti.

Il mio lavoro è come un unico, grande pezzo, che nasce a partire dalle domande che più ci premono: si esplora, s’interroga, si guarda all’indietro, si riprende il viaggio.

Disse una volta Pina Bausch in una delle rare interviste concesse; non perché fosse un tipo altezzoso o superbo, ma perché, come spiega la giornalista Leonetta Bentivoglio, sua grande amica,

Parlava pochissimo ma aveva uno sguardo eloquente, un modo di comunicare non verbale fortissimo. Non era una intellettuale: fare una intervista con lei era una fatica immane. Era tutta emozioni.

Già, una vita vissuta con le emozioni come uniche linee guida da seguire, da esprimere nel suo lavoro con tanta abnegazione da rasentare l’autodistruzione.

 Faceva questi spettacoli mostruosamente complessi facendosi divorare dalla ricerca – spiega ancora Leonetta Bentivoglio a Wordsinfreedom – Si è fatta scarnificare. Nel momento in cui ha iniziato la sua ricerca poetica era una persona che lavorava fino alle quattro di notte, fumava sei pacchetti di sigarette al giorno, non mangiava. Era una specie di strana suora della creazione…. Le piaceva cercare l’umanità. Se ne fregava del proprio benessere. Non aveva vanità. Ma la vera priorità era questa mistica del lavoro. Una ricerca spasmodica. Credo fosse l’unica coreografa che sia stata presente a tutti i suoi spettacoli. Non ha mai mancato uno spettacolo, guardava e il giorno dopo faceva le correzioni. Era in continua ricerca della perfezione.

Persino il grande regista Federico Fellini, che la diresse in E la nave va, del 1983, in una delle prove d’attrice della coreografa (che ha recitato anche in Parla con lei di Almodovar), si riferiva a lei definendola come

Una monaca col gelato, una santa con i pattini a rotelle, un volto da regina in esilio, da fondatrice di ordine religioso, da giudice di un tribunale metafisico che d’improvviso ti strizza l’occhio.

Possibile che, in una donna tanto attenta alla ricerca del sentimento, dell’emozione, e della sua perfetta espressione, non ci fosse spazio che per il lavoro?

I due grandi amori

Pina Bausch ha sempre cercato di custodire gelosamente la parte privata della sua vita da coreografa e ballerina internazionale, che aveva frequentato la prestigiosa Juilliard di New York ed era stata interprete per  il New American Ballet e la Metropolitan Opera. Ha sempre tentato di proteggere l’amore intimo, quello che riservava a pochi eletti, dando in pasto al pubblico solo l’amore per la sua arte, l’unico che potesse concedere loro; ma certo c’è stato del dolore, nella vita di Pina bausch, per quell’amore perduto prematuramente, l’olandese Rolf Borzik, scenografo e costumista che lavorava al suo fianco, morto di leucemia nel 1980.

C’è stata, però, anche della gioia, tanta, per l’arrivo del figlio Rolf Solomon Kay, avuto da Ronald Kay, un professore di letteratura cileno che resta per sempre il suo compagno.

Pina era sicura di non poter avere figli e non ci pensava – dice Bentivoglio – e poi a un certo punto si è ritrovata madre a 43 anni. Era una madre tenerissima. Se lo portava sempre dietro, l’ha allattato a lungo. Anche con lui ha stabilito un rapporto molto fisico diretto, istintivo. Gli ha dato un forte segno di legame nella fase della prima infanzia che lo ha giustamente segnato.

Il discorso alla consegna della laurea

Quando, nel 2003, le viene conferita la laurea honoris causa in arti performative a Bologna, nel suo discorso di ringraziamento emerge tutto quello che, negli anni, ha fatto vedere sul palco, prima come ballerina, poi come coreografa.

Una volta, in Grecia, sono andata a visitare alcune famiglie di zingari. Ci siamo seduti insieme e abbiamo parlato; ad un certo punto tutti hanno cominciato a ballare ed io dovevo partecipare. Avevo una gran paura e la sensazione di non essere in grado. Allora è venuta da me una ragazzina, forse sui dodici anni, e mi ha pregato ripetutamente di danzare assieme a loro. Diceva: ‘Dance, dance, otherwise we are lost’. Balla, balla, altrimenti siamo perduti […] Danzare deve avere un fondamento diverso dalla pura tecnica e dalla routine. La tecnica è importante, ma è solo un presupposto.

Certe cose si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ma ci sono anche dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e disorientati, non si sa più che fare. A questo punto comincia la danza, e per motivi del tutto diversi dalla vanità. Fin dall’infanzia la danza è stata per me un mezzo di espressione molto importante. Con la danza potevo esprimere tutte quelle emozioni che non sapevo dire a parole. Sono talmente tanti i differenti stati d’animo, tante le sfumature e le tonalità che si possono esprimere attraverso la danza. Ed è questo ciò che conta: si deve conservare la ricchezza, non limitarla, si devono rendere visibili e percepibili tutte le diverse sfumature.

Elegante e anticonformista al tempo stesso, Pina Bausch ha vissuto la vita come la voleva: amando, ballando, cercando continuamente, senza sosta, la perfezione, sacrificando persino se stessa. Entrata in ospedale, nel 2009, per effettuare degli esami che avrebbero dovuto spiegare una stanchezza eccessiva, è morta appena cinque giorni più tardi di cancro, il 30 giugno. Oggi, che avrebbe compiuto 82 anni, di lei restano le parole, non quelle dette, ma quelle che è riuscita a far vedere sul palco, nel suo essere danzattrice.

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